Siamo vulnerabili: è la conclusione che si può trarre in breve dal rapporto sul debito pubblico italiano rilasciato dalla Commissione Europea.
38.400 euro per ogni cittadino è il peso del debito calcolato nel solo 2018, una zavorra che unita ad altri fattori frena ogni possibilità di crescita. Risultano evidenti le criticità dei provvedimenti simbolo dell’ultimo anno di governo, da quota 100 al reddito di cittadinanza, che aggravano lo stato già insostenibile dei conti pubblici.
Lo spettro dell’apertura di una procedura di infrazione a nostro carico ora non è più così lontano, con il rischio concreto di dover sentire nuovamente le grida di chi – pur colpevole – scarica le proprie inique responsabilità sull’Europa e le sue Istituzioni, sommergendole di improperi utili solo ad avvelenare un clima già pericolosamente teso. Si badi però che una simile reazione non sarebbe solo da incoscienti – o un riflesso grottesco tipico “di chi piange sul latte versato” – ma rappresenterebbe la precisa e strumentale volontà (oserei dire criminale!) di generare e cavalcare malessere, puntando il dito sul nemico di volta in volta prescelto.
Sono tante le ragioni per cui non avrebbe alcun senso agitarsi istericamente per le attenzioni che l’Unione Europea rivolge legittimamente ai nostri conti pubblici: in primo luogo perché ci viene chiesto niente di più che il rispetto di impegni da noi liberamente sottoscritti. Dobbiamo tenere a mente che un’Italia instabile non è un problema solamente interno. Gli Stati non sono compartimenti stagni privi di significative connessioni tra loro, soprattutto oggi. Negare questo concetto di fondo, in nome di un’idea di “sovranità” disarticolata, suona quasi delirante. Il prof. Sabino Cassese in un interessante editoriale comparso sul Corriere della Sera il 18 agosto scorso, intitolato “Gli Stati non sono sovrani”, scriveva:
“[…]I Paesi membri dell’Unione hanno sottoscritto trattati in cui si impegnano a rispettare alcuni principi giuridici […] ed economici[…]. Essi debbono quindi dar conto all’Unione del rispetto di tali principi, se limitano l’indipendenza dei giudici o hanno un alto debito pubblico con bassa crescita economica (lo spread sale e la borsa scende). Pur provenendo da fonti diverse, questi vincoli hanno un tratto in comune. Discendono dalla interdipendenza che lega gli Stati nel mondo. Essi non sono più isole separate. Si influenzano reciprocamente. Le sorti dell’uno sono legate alle sorti dell’altro. Un vicino aggressivo può domani essere un pericolo. La politica economica allegra di un «partner» deve preoccupare gli Stati che sono associati ad esso. A dispetto dei «sovranisti», quindi, gli Stati non sono interamente sovrani, devono godere anche della fiducia dei propri vicini e dei mercati. Quelli che chiamiamo mercati sono anche loro, in ultima istanza, composti di risparmiatori-investitori, quindi di «popolo».[…]”
Ecco dunque che uno scontro frontale con l’Europa, all’indomani delle nostre scelte di bilancio rivelatesi decisamente improvvide, sarebbe un errore clamoroso. Ancor più se giustificato dalla strumentale e ingannevole retorica della “sovranità”, diméntica della cosiddetta «horizontal accountability».
Attenzione però: ciò non significa rinunciare a negoziare – pur tenacemente – per portare avanti le proprie posizioni, anche ardite se necessario e se supportate da un programma credibile. Ma è questo il punto!
C’è in Italia non tanto un piano di interventi, ma almeno una sensibilità politica che consideri il costo abnorme del nostro debito pubblico, proponendosi di ridurlo?
Che abbia tra gli obiettivi, per liberare risorse, la razionalizzazione di una spesa pubblica disordinata e una seria lotta all’evasione fiscale?
Che si interroghi sul perché l’esposizione del nostro Paese risulti costantemente fragile?
Che presenti uno schema d’investimenti coerente, mirato e lungimirante in un quadro favorevole al loro sviluppo?
Che metta al centro delle politiche pubbliche un approccio inter-generazionale e di sostenibilità nel senso ampio del termine?
È su questo che servirebbe interrogarsi, almeno per cominciare.
Un profilo negoziale credibile passa prima di ogni cosa dalle risposte che siamo in grado di fornire. Non c’è posto nè tempo per indecisione e pressapochismo.
Va evitata ad ogni costo la tentazione animalesca di cedere all’istinto della polemica sterile e divisiva, che ci indebolisce e nessun vantaggio arreca alle presunte ragioni che si intende sostenere.
Quando nel 1976 il Cancelliere Schmidt rese pubblica una dichiarazione con cui – a nome anche di americani, francesi ed inglesi – sostanzialmente diffidava l’Italia da particolari scossoni politici se voleva evitare l’isolamento, si animò nel nostro dibattito pubblico un’accesa critica a ciò che parve (ed in fondo non poteva definirsi diversamente) una sorta di ingerenza. Si trattava di altri tempi: il contesto comunitario e internazionale era diverso e il Paese attraversava stagioni difficili. Tuttavia, mi ha molto colpito il pensiero di una parte della classe dirigente italiana di allora, ben riassunto dalle parole di Andreotti che il 13 luglio 1976 scriveva in proposito nei suoi diari:
“Io credo che non dobbiamo mostrarci isterici né permalosi. Avremo tempo di spiegare al Cancelliere la situazione e chiedergli consigli. Oggi egli rappresenta il Paese al quale abbiamo dovuto portare in pegno l’oro della riserva monetaria per garantire gli ultimi prestiti. Non possiamo risentirci perché si occupa di ciò che accade da noi… debitori. Con fermezza mi oppongo ad ogni presa di posizione pubblica in polemica con Bonn.”
Aveva appena ricevuto l’incarico di formare il governo.
Un pensiero di grande sensibilità istituzionale, lucido, in un frangente che richiama facilmente il parallelismo con i fatti di oggi, con l’Europa accusata di interferire prepotentemente negli affari italiani. Sia chiaro: le differenze con lo scenario e i protagonisti del passato sono notevoli, ma memori anche della nostra cultura istituzionale dobbiamo guardare più in là del contingente momento storico, oltre il consenso spicciolo racimolabile da slogan di irascibile natura scribacchiati o masticati qua e là. Serve essere sagaci, avere un’idea di Paese e un progetto di governo da articolare con autorevolezza e senza quella litigiosa volgarità che mortifica prima di ogni cosa le nostre stesse capacità.
Salvatore Salzano
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