Napoli, borgo S.Antonio.
Il video che riprende una banda di giovanissimi armati di petardi e sassi, mentre con spregiudicata violenza assalta – letteralmente – gli agenti della Polizia di Stato intervenuti per impedire l’accensione dei cosiddetti “fuocarazzi”, è la drammatica rappresentazione di un problema terribilmente più profondo e annoso di quanto i commentatori d’ultima ora lasciano trasparire.
Dinanzi a queste sconfinate dimostrazioni di inciviltà urge uno sforzo ulteriore rispetto alla legittima condanna. Perchè se un gruppo di ragazzini, alcuni addirittura con meno di 14 anni, si comporta con tale sprezzo delle regole e delle Istituzioni, è chiaro che la soluzione non può essere riducibile alla sola invocazione di pene più severe.
Del resto un approccio esclusivamente sanzionatorio – che neanche si interroghi sulle complesse cause di un comportamento tanto feroce – non arriva neanche a scalfire un mostro ben più grande di quello che evidentemente si vuole accettare.
Ecco perché non possiamo assolutamente permetterci l’ingenuità di non contestualizzare l’episodio.
Se dei poco più che bambini esprimono – per citare testualmente la relazione semestrale della DIA – “esasperata violenza” , “mostrando di non avere alcuna coscienza della gravità dei loro atti”, significa brutalmente che come Stato abbiamo fallito, in primo luogo nella nostra missione educativa e civile.
Ed è d’obbligo l’uso della prima persona plurale: per ricordarci che le Istituzioni non sono altrimenti orientate negli scopi e nelle azioni se non dai valori e dalle idee che noi stessi imponiamo come prioritari!
Troppo spesso dimentichiamo di essere una comunità e di avere la responsabilità diffusa e condivisa di tutelare chi ci sta accanto e ciò che ci circonda, in nome dei diritti e dei doveri che per primi siamo chiamati a rispettare e a trasmettere.
Ecco perché la colpa è anche nostra: perché ci affrettiamo a trattare degli adolescenti allo sbando solo e isolatamente come una minaccia, e non anche come giovani cittadini che -inconsapevoli o no – rivelano un disperato bisogno di aiuto. (E sia chiaro: questo non giustifica affatto il comportamento di cui sono autori!)
Forse abbiamo pensato, o continuiamo a pensare, che l’arrogante convinzione di essere nel giusto legittimi l’indifferenza verso tutto ciò che accade appena fuori dall’aiuola di casa.
O perché abbiamo meschinamente creduto, e crediamo tuttora, che l’idea stessa di comunità non abbracci davvero tutti, ma solo chi lo merita, e che proprio a noi “giusti” spetti il compito di giudicare chi può farne parte e chi no.
L’episodio da cui muove questa riflessione ha riacceso il dibattito pubblico sulla presenza di varie forme di criminalità nel napoletano. L’approccio prevalente con cui si affronta è però a mio avviso insufficiente nella misura in cui non approfondisce la questione sotto il profilo culturale.
Un quattordicenne che – forte dell’accondiscendenza e del supporto di chi gli sta accanto – scaglia una pietra contro agenti intervenuti per evitare un illecito, è un giovane che non si sente parte della comunità e che pertanto non riconoscendosi nelle sue norme le disprezza.
La sconfitta dello Stato è tutta qui: nell’aver abbandonato alcuni cittadini con colpevole, sistematica e persino strumentale assenza, proprio laddove vi era (e vi è) più bisogno.
È nei quartieri emarginati che il mostro criminale – con numerose maschere – ha radicato la propria sottocultura e affermato i suoi modelli, rafforzando la presenza con il consenso e l’interazione, regolando la vita collettiva secondo logiche deviate percepite per converso come normali, inevitabili, “le uniche possibili”. Allora abusi e prevaricazioni diventano la quotidianità in cui si nasce e si cresce, con cui si viene educati e si convive.
Ed è solo partendo da simili premesse che possiamo provare a immaginare una risposta organica a quanto accaduto a Napoli nei giorni scorsi: ricucendo queste aree periferiche al resto della città in un programma di sviluppo omogeneo, ripristinando riferimenti culturali, riportando servizi, ascolto e risposte sociali, unendo l’intervento sanzionatorio a un lavoro meticoloso e infaticabile di prevenzione.
Non sarà un’impresa facile, richiederà grandi risorse e molto tempo, ma deve essere svolta con la consapevolezza sincera – di tutti noi! – che non si è una comunità viva, civile e libera, se con indifferenza e disprezzo si lascia qualcuno indietro. È per questo che per ogni giovane che si sentirà escluso o abbandonato, e che cercherà risposte e identità tra le spirali criminali, avremo in parte fallito anche noi.
Teniamolo bene a mente: perché le nostre scelte possono fare tutta la differenza del mondo.
Salvatore Salzano
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