“Una mostra impossibile; l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità digitale” è il titolo di una mostra in cui vengono esposte le riproduzioni delle opere di tre autori tra i più influenti della tradizione artistica italiana: Leonardo, Caravaggio, Raffaello.
L’iniziativa, prodotta e realizzata dall’Associazione Pietrasanta Polo Culturale, Rai e l’Assessorato alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli, si inserisce nel contesto di una serie di “mostre impossibili” (già allestite a Napoli, a Salerno, a Roma, a Chicago, a Santa Cruz e altre città), nate con l’intento di promuovere il patrimonio artistico e culturale italiano.
La mostra attuale riporta l’iniziativa a Napoli: dopo l’esperienza di Castel Sant’Elmo nel 2003, adesso è ospitata dal Convento di San Domenico Maggiore; il suo chiostro, risalente al XIII secolo ma restaurato nel 2011, costituisce l’anticamera di un’esperienza che vuole conciliare l’antico con le potenzialità dall’epoca contemporanea. Proprio dal chiostro, infatti, si accede alla sala in cui si tiene la mostra. Il prezzo del biglietto è di cinque euro, ma ci sono riduzioni per gli studenti universitari e per i più giovani; inoltre, l’intera visita è gratuita per i gruppi scolastici organizzati.
Inaugurata il 3 dicembre 2013, la mostra sarebbe dovuta terminare il 21 aprile 2014; tuttavia, coerentemente con l’intento di allargare il più possibile la fruibilità delle opere d’arte al pubblico, è stata prolungata fino al 31 maggio. Questa scelta ha permesso di inserirsi nel contesto del “Maggio dei Monumenti”, partecipando così dell’opera di promozione artistica in atto anche presso altri complessi museali.
In questa volontà di democratizzazione artistico-culturale è da individuarsi il principio che ha portato alla realizzazione dell’iniziativa: peculiarità delle “mostre impossibili” è quella di esporre delle riproduzioni delle opere originali. Si parla di riproducibilità digitale poiché la tecnica adoperata per la realizzazione è appunto quella della stampa digitale: partendo da una matrice ad alta risoluzione, dopo un lavoro di calibratura dei valori cromatici e luminosi, la riproduzione viene trasferita su un supporto omogeneo, trasparente, a grana fine e che rispetta le dimensioni dell’originale.
Il sottotitolo “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità digitale” non è, però, una mera indicazione della tecnica adoperata. Esso richiama un saggio di Walter Benjamin, intitolato “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, in cui vengono affrontate le istanze e il significato che assume l’arte nel momento in cui la tecnologia offre i mezzi per riprodurla. La tesi iniziale da cui parte Benjamin è che l’opera d’arte non è assimilabile alla sua riproduzione: a quest’ultima manca l’autenticità, ovvero l’hic et nunc che è proprio dell’originale. È vero.
La riproduzione non è l’opera originale. Ciò che la riproduzione rappresenta è un “segno”, che all’originale rimanda. Inoltre, in questo caso la riproduzione ha dalla sua parte l’elevata fedeltà, resa possibile dalla conservazione delle dimensioni reali e dall’alta qualità delle immagini. Pertanto essa assolve a un compito di richiamo, manifestando la presenza di un assente – concetto che nel filosofo Jean-François Lyotard è alla base della struttura del desiderio. Questo è forse il motivo della contraddittorietà dei giudizi formulati dal pubblico non specializzato: chi assiste alla mostra prova il desiderio di conoscere l’originale.
Esiste però un dato innegabile, e cioè che questa mostra è detta a ragione “impossibile”: in essa sono raccolti, in uno stesso luogo, quasi tutte le opere di Raffaello, tutti i dipinti di Leonardo, e l’opera completa di Michelangelo Merisi. I dipinti, disseminati tra vari musei, chiese e abitazioni private (le opere sono dislocate tra la Galleria degli Uffizi di Firenze, il Louvre di Parigi, la National Gallery di Londra, la Pinacoteca di Brera, i Musei Vaticani, il Kunstistorische Museum di Vienna, l’Alte Pinakothek del Museo di Baviera, per citare esclusivamente i musei più importanti), trovano così una situazione che, per le condizioni strutturali in cui si trovano gli originali, è altrimenti impossibile in senso assoluto. Questo dato è lo stesso sottolineato da alcuni storici dell’arte, tra i quali Salvatore Settis, Claudio Strinati, Denis Mahon e Ferdinando Bologna (che ha curato la direzione scientifica del progetto): la mostra, oltre a semplificare l’accesso a molte opere, consente di raccoglierle e organizzarle per autore o per argomento.
Il percorso dell’allestimento segue questa logica organizzativa: i singoli artisti sono collocati in ambienti separati e al loro interno è possibile un’organizzazione tematica – come nel caso della sezione delle opere di argomento musicale di Caravaggio, accompagnata da un sottofondo musicale che si rifà al tema dei dipinti. La presenza della maggior parte delle opere realizzate dall’autore nello stesso luogo sopperisce a quella disgregazione del processo artistico che, secondo Benjamin, ha fatto sfuggire l’arte al regno della bella apparenza. La bella apparenza è recuperata grazie alla cura dell’allestimento, la quale sta a fondamento del valore espositivo della mostra, e che, in questo caso, è al contempo la base di ciò che lo studioso tedesco chiama valore cultuale.
Tutto il percorso è caratterizzato da un’atmosfera museale, grazie alla quale è possibile perdere la cognizione di trovarsi di fronte a un non-originale. Se è vero che nella riproduzione si perde l’aura dell’opera, ovvero la quintessenza del suo hic et nunc e di tutto quel che di essa si può tramandare, è anche vero che la presenza dell’opera di un autore nel suo complesso, insieme con l’attenzione per la disposizione, per le luci ed eventualmente per la musica, acquisisce e conserva l’aura che caratterizza la presenza dell’arte, il rispetto reverenziale che essa ispira nello spettatore al museo.
È per questa ragione che, pur non essendo presenti di fronte ai dipinti originali, chi assiste alla “Mostra Impossibile” è presente ad un’autentica esperienza dell’arte.
Francesco Asante