(Editoriale pubblicato anche sull’edizione nazionale del Corriere Quotidiano)
Forse tra gli errori politici più grandi della storia britannica del secondo dopoguerra. Senza mezzi termini, senza valutazioni di comodo, così definirei la scelta di indire il referendum sulla #Brexit in questo specifico momento storico, con i partiti euroscettici in forte ascesa e con un’Ue indebolita dalle tante crisi che negli ultimi mesi hanno messo a dura prova la tenuta democratica e ideologica dell’Unione.
“The threat that leaves something to chance”, la minaccia che lascia che qualcosa sia deciso dal caso, un’espressione del premio Nobel Thomas Schelling che esprime un concetto chiave delle tattiche negoziali: tra due parti che trattano in situazioni estremamente delicate (“brinkmanship”), una delle due sceglie di minacciare l’altra con qualcosa su cui non ha pienamente il controllo. Contestualizzando: il premier britannico Cameron mostra lo spettro del referendum sulla Brexit (qualcosa di cui non ha il controllo) per rafforzare la sua posizione alla rinegoziazione di febbraio degli accordi con l’Ue. Una mossa strategica forte, ma azzardata, per spingere i Ventotto ad accettare le richieste britanniche che avrebbero delineato uno status speciale della Gb all’interno dell’Unione. Resta però il fatto che il referendum è previsto in ogni caso, a prescindere dal successo delle trattative di febbraio; manca dunque la minaccia vera e propria, che in questa fattispecie andrebbe individuata più che altro nel non impegno di Cameron durante la propaganda referendaria a favore del “Remain”, garanzia che sarebbe invece caldeggiata da Bruxelles. Continua quindi ad esistere un’enorme incognita, e viene da chiedersi dove sia la vittoria se si rischia in ogni caso di perdere il controllo della situazione (“leaves something to chance”).
La risposta a mio avviso racchiude l’errore politico, fatale, di David Cameron. Il Premier britannico ha ritenuto il rischio del referendum, promesso nella campagna elettorale trionfale del 2015, come calcolato e accettabile, convinto che quanto ottenuto a Febbraio a Bruxelles sarebbe stato un successo sufficiente a placare i malcontenti interni. Il “caso”, per citare Schelling, restava dunque dalla prospettiva di Cameron come relativo, tutt’altro che imponderabile, abilmente pilotato dalle mosse politiche precedenti alla consultazione di ieri. Una strategia enormemente rischiosa, certo potenzialmente efficace, ma che non ha tenuto conto del contesto in cui maturava. L’Europa degli ultimi mesi si è infatti mostrata colpevolmente immobile dinanzi alle tante criticità che sono emerse dal panorama internazionale. La crisi migratoria, il rischio terrorismo e l’emergenza sociale ancora cavalcante per scelte economiche ormai di dubbia portata, hanno mostrato un’Unione incapace di superare miopi nazionalismi, bloccata da uno stallo preoccupante e senza programmi d’intervento efficaci. Elementi che se globalmente considerati rivelano il background ideale per la rapida crescita di movimenti populisti ed euroscettici, che registrano oggi un consenso mai così alto in quasi tutti gli stati d’Europa.
L’esito referendario di ieri, che va in ogni caso rispettato come risultato di un libero esercizio di democrazia, scopre il fianco a un’Europa debole che può tanto uscirne rafforzata, quanto distrutta da uno spaventoso effetto domino e da politiche conservative poco coraggiose e lungimiranti. Una cosa però credo vada sottolineata: qualsiasi scelta, Bruxelles dovrà farla subito, senza temporeggiare ulteriormente.
Intanto, è difficile dire cosa accadrà: in un sistema incredibilmente “intrecciato” come quello risultante dalla globalizzazione e dall’alto livello di cooperazione all’interno dell’Unione, sicuramente l’uscita della Gran Bretagna comporterà al Paese delle conseguenze che non definirei affatto trascurabili. Il piano politico poi è notevolmente preoccupante e l’analisi del voto dovrà impegnare la classe dirigente d’Oltremanica sin da oggi, perché la rabbia e le resistenze di Scozia e Irlanda del Nord sono un problema serio da affrontare subito così come la successione di Cameron e l’ascesa dell’Ukip di Farage, il partito euroscettico dalle posizioni spesso xenofobe e vero vincitore di questa consultazione. Probabile che il futuro Premier rispecchierà l’anima del referendum, sarà quindi un membro del partito conservatore sostenitore del “Leave” con il difficile compito di traghettare la nazione in un periodo di transizione che potrebbe coincidere con il rafforzamento dei laburisti, candidati principali alla vittoria delle prossime elezioni.
L’Europa invece, come detto, dovrà reagire senza indugi e dovrà farlo a mio avviso dando una decisa accelerata al processo di integrazione europea. Un’Unione progressivamente più politica è infatti la sola possibilità per interfacciarsi con autorevolezza in uno scenario globale sempre più polarizzato, in un contesto dove la disgregazione di un’organizzazione internazionale regionale avrebbe effetti devastanti anche per i singoli Stati tanto gelosi delle proprie prerogative.
Reagire dunque all’euroscetticismo dimostrando che un’Europa unita è il solo strumento possibile per rispondere con fermezza alle sfide politiche, sociali ed economiche del nostro tempo, superando le diffidenze e le resistenze che fino ad ora non solo hanno rallentato un processo graduale già difficile di per sé come quello di integrazione, ma hanno addirittura rischiato di far fallire un progetto visionario nato proprio – il che è emblematico – in un frangente storico di profonda instabilità e difficoltà.
Dobbiamo oggi più che mai mettere in evidenza i valori fondanti dell’ Unione Europea, il suo potenziale nel modo in cui lo concepivamo prima che politiche distruttive e ideologie nefaste ne svilissero l’essenza. Abbiamo ancora il tempo per cambiare rotta, ma dobbiamo fare presto ed essere coraggiosi. Prima che sia troppo tardi, proprio come quando – in un continente lacerato da due conflitti mondiali – tutto ebbe inizio.
Salvatore Salzano
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