La notizia di cronaca estera che qualche giorno fa ha tenuto banco su tutti i media di informazione è stata la condanna alla pena di morte in Arabia Saudita di 47 persone, incluso il noto Imam Nimr al-Nimr.
Il numero di giustiziati è emblematico di un provvedimento da troppo usato ed abusato dall’Arabia Saudita, ma qual è la storia dell’impiego della pena capitale in questo paese?
La pena di morte nei paesi islamici è prescritta dalla Shari’a, la legge araba che è essenzialmente legge di Dio ed ha come fonti primarie scritte il Corano e la Sunna.
Secondo la legge, la pena capitale può essere applicata per crimini di varia entità (dallo stupro all’omicidio al traffico di droga), ma anche per altri motivi come omosessualità, blasfemia, apostasia (rinuncia della religione islamica), o addirittura stregoneria e può essere eseguita in quattro modi: impiccagione, lapidazione, fucilazione e, più frequentemente, decapitazione. Per le donne, invece, c’è anche la possibilità di scegliere di essere giustiziate con un colpo di pistola alla nuca, per far sì che non siano costrette a scoprire il capo.
Alcune organizzazioni umanitarie, Amnesty International in testa, hanno denunciato la sommarietà con cui la pena di morte viene impartita, con processi arbitrari e spesso scorretti, ma non solo:
Violando la Convenzione sui diritti dell’infanzia e il diritto internazionale, [l’Arabia Saudita] ha messo a morte persone per reati commessi quando erano minorenni.
Spesso i processi per reati capitali sono tenuti in segreto e sono sommari e iniqui, senza l’assistenza e la rappresentanza legale durante le varie fasi della detenzione e del processo. Gli imputati possono essere condannati sulla base di confessioni estorte con torture e maltrattamenti, coercizione e raggiri.
[Approfondimento di Amnesty International]
Alcuni prigionieri stranieri, inoltre, sono stati avvertiti della condanna e della conclusione del loro processo solo quando le guardie sono entrate nella loro cella per portarli sul luogo di esecuzione. Capita spesso che anche i familiari vengano avvisati della condanna ad uccisione avvenuta o addirittura direttamente dai mezzi d’informazione.
In alcune occasioni, quando le esecuzioni per decapitazione sono eseguite in pubblico, la testa del condannato rimane esposta per qualche giorno come monito per gli altri cittadini a non trasgredire la Shari’a.
Nel 2014 un rapporto di Amnesty International ha rilevato che nel solo anno solare in Arabia Saudita è stato eseguito un numero minimo di 90 esecuzioni (ma si attestano a più di 150), secondo valore dopo l’Iran (non viene considerata la Cina perché sulla pena capitale vige il segreto di stato. Per maggiori informazioni Rapporto sulla pena di morte nel 2014).
Un valore che è risultato essere aumentato rispetto al 2013 (quando il numero minimo di esecuzioni era attestato a 79) perché tra la seconda metà del 2014 e il 2015, sotto i regni di Abdullah prima e di suo fratello Salman dopo (foto a fianco), è stato introdotto il reato di terrorismo, concetto assolutamente estraneo alla Shari’a religiosa.
È stato facile considerare, dunque, la possibilità per il governo saudita di applicare la pena di morte per eliminare definitivamente oppositori politici: chiunque manifestasse dissenso nei confronti del governo anche solo partecipando ad una manifestazione è infatti passibile della massima punizione seguendo gli stessi criteri di sommarietà nei giudizi.
L’Arabia Saudita, d’altro canto, non solo nel 2004 votò contro la risoluzione per l’abolizione della pena capitale approvata dalla Commissione per i Diritti Umani dell’ONU, ma ha anche sempre negato di applicare la pena di morte in maniera così sconsiderata, affermando che sia invece un provvedimento eseguito solo in caso di reati molto gravi.
Le informazioni, però, non sono clementi con il governo saudita: contando solo i dati minimi si è assistito ad un aumento del 15% di esecuzioni capitali, essendo quindi stati vani i continui appelli delle organizzazioni umanitarie.
Gianluca D’Andrea
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